Nel numero 169 del maggio 1995 di Airone compare un servizio sul ritrovamento, nelle grotte francesi dell’Ardèche, in particolare nella grotta della Combe d’Arc, di alcune testimonianze dell’arte rupestre del Paeleolitico (20000 anni fa) di eccezionale importanza per la fattura e per l’impatto figurativo che tali ritrovamenti sucitarono e suscitano nel mondo contemporaneo.
Si tratta di alcune decorazioni presso delle grotte, certamente servite per riti iniziatici del tempo. Cos’hanno di tanto importante questi graffiti e disegni preservati per tanto tempo su queste rocce?
Bene, sono segni molto particolari per quanto riguarda l’arte figurativa primitiva ma anche per l’arte in genere. Le composizioni raffigurate si avvicinano ad un concetto di segno-figura che va oltre la posizione di un’interpretazione primordiale dell’uomo data fino ad ora.
I profili animali ripetuti, mostrano una sicurezza e un controllo del segno e del materiale utile a crearlo, indiscutibile. La testura della roccia agevolava infatti, sia il colore dell’animale raffigurato che la drammatica realtà della sua presenza fisica. Se poi pensiamo che nel 1991 presso Marsiglia nella grotta Cosquer, la sagoma di un bue venne disegnata intorno ad una roccia che ne riproponeva la grande massa e quindi presentava il disegno-scultura tridimensionale e possente come era in natura, allora ci rendiamo conto dell’alto valore simbolico ma anche culturale di queste popolazioni preistoriche.
Per concludere il tutto, l’artista primitivo (si fa per dire) in altre località della Patagonia nel Rio Chubut, spruzzava sulla sua mano, apoggiata ad una roccia, del colore e lasciava l’impronta in negativo confermando così la sua presenza nel luogo e la sua diversità individuale.
Di fronte a questi episodi è evidente che l’uomo ha sempre sentito il bisogno di rifarsi ad un mondo di immagini come linguaggio, ma con l’aggiunta di un collegamento o una necessità di accedere ad una dimensione nuova che era il controllo di ciò che vedeva intorno a sè. Una necessità fisiologica di interloquire con i propri simili e con il suo spazio forse ancora inteso come elemento ostile. Rappresentando la sua realtà cercava, raffigurandola, di controllarla. L’elemento importante da considerare comunque, è che il segno anche se primitivo, ripropone la realtà degli animali fisicamente vissuti lasciando rappresentazioni di razze estinte e in più aggiunge un espressionismo simbolico che fà pensare a gruppi di individui evoluti intellettualmente.
Una testimonianza importante che esprime una necessità dell’uomo ad evolversi accedendo a possibili mondi e modi d’espessione diversa. Anche individui di notevole spessore artistico come Michelangelo Buonarroti o Leonardo da Vinci, ripropongono nei loro studi grafici per animali o per volti umani quella tensione personale, quella ricerca angosciosa spasmodica e passionale che porta il primo al non finito, quindi a sbozzare alcune parti del corpo della scultura lasciandole grossolanamente definite e il secondo alla ricerca di un dettaglio che esprimesse e continuamente la scienza della macchina perfetta del corpo umano.
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Fig. 1, 2, 3) viste dei ritrovamenti nelle grotte dell’Ardèche, grotta Combe d’Arc, 1995. |
Fig. 4) M. Buonarroti, Studio di nudo volto a sinistra.
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Fig. 5) Leonardo Da Vinci, Studio di due teste di guerrieri.
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I codici interpretativi storici e i contesti figurativi sono totalmente diversi, ma qui si deve fare riferimento soprattutto alla tensione artistica e allo spirito di ricerca, di individui sensibili allo sviluppo di una dinamica del segno-forma.
Per l’uomo primitivo il segno sulla roccia voleva dire già possedere il mondo esterno, poi il riferimento all’azione più raffinata e preziosa di un artista come Michelangelo o Leonardo, permette di immaginare come, metaforicamente, la ghiera del grande zoom della realtà si è messa a ruotare, focalizzando meglio la composizione e rendendo più nitida la forma, ma non basta!
Altri episodi possono favorire questo fondamentale atto di relazionalità, tra una sensibilità e l’esperienza che la prepara all’intuizione. Quello che qui trattiamo descrive come durante la mutazione del tempo, tante realtà passate possono essere rilette filtrando il loro reale valore percettivo e ammettendo come tanti risutati diventino assonanti non per coincidenza visiva ma per un’evidente trama cocettuale che però è purtroppo frenata da classificazioni che ne determinano l’inevitabile staticità.
Il genio futurista Umberto Boccioni, genera nel 1913 “forme uniche nella continuità dello spazio”, usando come materia comunicativa un’arte di cui dispone e di cui è interprete fondamentale, la scultura. Proietta una sua visione. Con la sua sensibilità traccia nello spazio dei segni avvolgenti, che definisce come forme-forza capaci di sprigionare energia proprio come la vita che si rigenera, poi definisce delle masse. Il tutto trasforma l’ambiente circostante diventa una struttura di enorme dinamicità e di fondamentale importanza per una teoria oltre che artistica, anche filosofica (oggi).
Non dimentichiamo che nel Manifesto tecnico della scultura lui dice: “Spalanchiamo la figura e chiudiamo in essa l’ambiente”.
La velocità macchinistica furturista è illusoria, non è l’uomo spinto a grande velocità che si trasforma ma è la ricerca della geniale relazionalità che è stata definita nel nostro quotidiano.I tempi ancora non erano maturi infatti, cos’era che doveva nascere per cui quelle forme dovevano avere una loro logica per non apparire banalmente segni d’appartenenza ad un movimento figurativo? Oppure per non apparire un’originale trovata artistica catalogata e perciò superabile? La tecnica computerizzata. Infatti, cambiato il filtro dei significati da decodificare, oggi siamo più vicini a percepire la grandezza dell’intuito boccioniano che va oltre il Futurismo precorrendo i tempi.
Il controllo, la creazione, lo studio e sviluppo di superfici virtuali porta alla grandiosa opera del Ghuggenheim museum di Bilbao dell’architetto Frank Gehry. Osserviamo come le grandi superfici di rivestimento in titanio sono colpite dalla luce solare e indaghiamo le sfumature che si compenetrano.
Ebbene, la fotografia della grande scultura voluta dal genio Boccioni (forme uniche nella continuità dello spazio) “indaga” lo spazio circostante diventandone una semplice evoluzione genetica e si espande vibrando e risuonando nell’intorno.
Forme assonanti? Lo scalpello è uno strumento meraviglioso! Anche il computer è un altro tipo di strumento; invece la sensibilità dell’individuo in ogni tempo, se stimolata, si adopera e risolve arrivando a concretizzare visioni immanenti (assonanti!?). Ci rendiamo subito conto come la sensibilità porti all’approccio formale e quindi l’azione dell’uomo sulla materia risulta diverso. Il risultato visivo è geniale, fondamentale quello concettuale, anche perchè analizzare l’oggetto facendolo appartenere allo spazio, continua ad essere la ricerca fondamentale dell’uomo, e ne consegue che in tempi e modi diversi riesce a toccare le stesse corde della sensibilità.
Fig. 6) U.Boccioni, forme uniche nella continuità dello spazio, 1913.
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Fig. 7) F. O. Gehry, modello del Guggenheim Museum Bilbao, 1991-97.
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Fig. 8) F. O. Gehry, particolare dal vero dell’effetto plastico della copertura in titanio.
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Ancora una volta si tratta di personalità artistiche che entrano in risonanza con il tempo e che intuiscono visioni.
Uno spazio che a distanza di tempo con una ricerca diversa e appena più matura, può comprendere la vera rivoluzione culturale data da episodi di un passato tutto da rileggere e da reinterpretare.
Prendiamo ad esempio l’aquefortista G. B. Piranesi nelle sue viste delle Carceri.
L’impeto dimamico carico di una drammaticità scenica si presenta, grazie alla materia di cui l’artista dispone per esprimersi, secondo fumosi profili di travi legnose e passerelle proiettate nel vuoto, facendo trasparire la sequenzialità di piani all’ infinito. Ma sono le sagome scure di ponti su vuoti irreali, travi squadrate incrociate secondo improbabili strutture che determinano le grandi fughe. Corpi che si compenetrano in uno spazio sovradimensionato esaltato da grandi blocchi in pietra capaci di far sparire le, sempre più piccole, sagome umane. Gli uomini incatenati infatti, diventano essi stessi punti focali di fughe generatrici di piani d’ombra e di luce.
Un vero e proprio spazio virtuale.
L’effetto scenografico è palese, temibili ambienti si susseguono, come cupe scene in allestimento, una generale contaminazione dell’elemento spazio interprete e attore dai mille volti.
La sensibilità assonante la troviamo tanto tempo dopo in una delle magnifiche e interessanti opere del “colto” architetto del New Jersey.
Nell’interno del Wexner Centre a Columbus in Ohio di P. Eisenman infatti, le coordinate cartesiane saltano e la, ormai classica, foto del pilastro sospeso a poca distanza da terra, prefiguara una drammatica visione dello spazio all’apice della de-costruzione. L’architetto identifica la dissonanza tra un mondo regolato e il tentativo di entrare in collisione con le sue stesse regole. Contro la presunzione di superiorità del nostro dare un senso a tutto, l’architetto smonta e priva di un centro forse per esaltare quel particolare senso di inadeguatzza al quale l’uomo è condannato per cui tenta in ogni modo di apporre illusori dogmi.
L’unico elemento inadeguato a questo tipo di struttura è proprio l’uomo.
Lo spazio finalmente si mostra da solo. Le direttici che lo esaltano, che siano una trama di pilastri (Eisenman) o passerelle e travi giganti o ancora catene e funi (Piranesi), caricano la visione generale ma ne esplorano la profondità semplificando finalmente la lettura di uno spazio che finalmente si rivela come unico risultato di una pratica di ricerca ,di studio amalgamate da un valore sensibile imponderabile.
Fig. 9) G.B.Piranesi, Le Prigioni.
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Fig. 10)
P.Eisenman, Wexner Centre a Columbus, Ohio. |
Fig. 11) G.B.Piranesi, Le Prigioni.
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Fig. 12 e 13) P. Eisenman, interni House III, Lakeville, Connecticut 1969-71.
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Fonti delle foto:
– N. 169 della rivista Airone, maggio 1995.
– Fascicolo di Art Dossier, Boccioni di gabriella Di Milia.
– Jean-Jacques Léveque, Piranesi.
– B.Zevi,Linguaggi dell’architettura contemporanea, 1993.
– Fascicolo della guida al Guggenheim Museum, 2001.
– Collezione de, I disegni dei grandi maestri, Fabbri Editori.
– R.Renato, Peter Eisenman, Motta Architettura 1996