Pagine da un diario
La cinquantesima esposizione internazionale d’arte di Venezia ha appena chiuso i battenti (2 novembre), forte dei suoi 260.000 visitatori (circa 1800 al giorno, 17% in più rispetto alla scorsa edizione), eppure si ha la sensazione che sia finita da anni. Colpa della macchina espositiva dell’arte contemporanea, che impone alle manifestazioni una gittata da fuochi artificiali: chi ricorda, è solo un esempio, le polemiche politico-amministrative che seguirono alla nomina di Francesco Bonami come direttore? L’evento della Biennale si consuma in realtà nell’arco di pochissimi giorni, concentrati nel mese di giugno; a chi non coglie il kairòs – il momento propizio – non resta che affidarsi al resoconto tardivo delle riviste d’arte (soprattutto straniere). La visita veneziana post-vernice assomiglia così al sopralluogo in un sito archeologico abbandonato, come succede nella Stazione Utopia (a cura di M. Nesbit, H.U.Obrist e R. Tiravanija) in cui l’unica cosa che continua a funzionare è il bar all’aperto. Rispetto all’interattività dei giorni dell’inaugurazione, ci si aggira in una landa desolata anni Settanta (come il tema prescelto) in cui la monotonia del paesaggio è spezzata solo dal capannone di legno stile baita – siamo ad agosto – in cui sono allestite alcune opere. Lo spettatore sembra catapultato nel bric-à-brac dietro le quinte di un teatro; come avrebbe detto Morpheus (di Matrix), “Welcome in the Desert of the Real!”, altro che utopia; è più utopico il progetto di Kippenberger (mi riferisco all’omaggio resogli dal padiglione tedesco) di una metro le cui fermate sono disseminate per il mondo che questa stazione messa insieme. Ciononostante, è proprio l’intempestività di questo intervento che si tratta di rendere produttiva, cercando di evitare il concetto ormai logoro della distanza necessaria per mettere in prospettiva una serie di elementi eterogenei. Charles Ray, Female figure (in progress), 2003 – (foto di Gaia Tedone) Effetto Biennale Sono stato a Venezia in due occasioni differenti: durante gli affollati e torridi giorni per la stampa (12-14 giugno) e durante l’ultimo fine settimana di agosto; la prima con un accredito all’occhiello conquistato dopo una fila straziante che ha messo a dura prova ogni entusiasmo, la seconda come visitatore pagante con un comodo biglietto valido due giorni. Una doppia visita non inutile, se solo durante la seconda ho capito quanto l’effetto Biennale dipenda dai cortocircuiti della nostra memoria visiva: ogni due anni ritorniamo sui nostri passi, ripercorriamo gli stessi viali, sostiamo negli stessi padiglioni e soprattutto leggiamo le tracce fantasmatiche delle opere che hanno informato quei luoghi. Non esiste un occhio vergine con cui guardare alla biennale. In altri termini, la visita si trasforma in un incontro con il nostro archivio di immagini, con l’emergere del nostro rimosso a partire dall’esperienza di un luogo di volta in volta riconfigurato. Aggirandomi ad agosto per i Giardini soprappongo i ricordi della precedente visita in occasione della vernice: in luogo dei viali deserti e desolati vedo file eccitate davanti ai padiglioni, in luogo del silenzio dell’ora di pranzo il vociare babelico dei critici, in luogo della vegetazione incolta i buffet privati “only if you’re in the list” (come quello dei paesi nordici: composizioni di frutta esotica da pranzo di Babette che, da dietro il vetro e con quaranta gradi all’ombra, sarà stato certo un miraggio). La Biennale, in altri termini, è già stata, è già da sempre visitata; ogni edizione ritiene la precedente e non fa che iscriversi in questo scarto. Personalmente, attraverso la “svolta cinese” di Szeeman, risalgo indietro fino al 1997 e alla selezione di Germano Celant. Trascurare questo dispositivo percettivo, la memoria di cui sono intessuti i luoghi, il fatto che il tempo sia una variabile dello spazio, o meglio la commessura fra un insieme di spazi combinati (una traiettoria che in letteratura va più o meno dalla Recherche allo Szeebald di Austerlitz), vuol dire mancare il fascino dell’evento. Si viene alla Biennale non solo perché Venezia è sempre Venezia (almeno finché non vengano erette le barricate contro l’acqua alta), ma anche perché i Giardini e l’Arsenale – con le loro crepe e i loro angoli nascosti – assomigliano sempre un poco più a loro stessi. La loro architettura, la loro struttura, lungi dall’essere un contenitore neutrale, un white cube da riempire, è piuttosto un testo da leggere che si espone man mano attraverso le opere. Tuttavia sono pochi i curatori consapevoli di quest’eredità, e pochissimi gli artisti che hanno saputo rielaborarla. Cady Noland, The big slide, 1989 – (foto di Gaia Tedone) Il dispositivo del luogo Quest’anno, forse, solo Gabriel Orozco ci è riuscito, non con una sua scultura quanto nell’inusuale veste di curatore di Il quotidiano alterato ospitata in un capannone dell’Arsenale, parte integrante dell’esposizione: niente mura divisorie in carton gesso (che fanno tanto fiera e arte mercato), niente solchi per le sculture, niente cornici né pannelli esplicativo-didattici. (Al proposito non potrebbe essere più grande la nostra distanza verso la sezione concepita da Catherine David che, in quanto semplice e singolo episodio di un discorso critico-espositivo più ampio sull’arte e la società araba, ha messo sotto due lunghe teche di vetro i testi del catalogo della precedente mostra, pagina per pagina – un gesto di presunzione che è l’esatto opposto della “dittatura dello spettatore” proclamata da Bonami). La mostra di Orozco è un’esposizione di oggetti-sculture – di prodotti, di materie lavorate non più merci e non ancora sculture – un sistema di rappresentazione che mette in crisi la linea di divisione fra naturale e artificiale e che soprattutto permette al luogo di esporsi. Il luogo espone se stesso come luogo, la sua storia, la sua determinazione socio-politica, il suo vissuto, influenzando di conseguenza la percezione sensoriale dello spettatore, il suo deambulare nello spazio. Solo così l’Arsenale esibisce la sua inadeguatezza in quanto canonico spazio espositivo: viene messa a nudo e denegata l’illusione di trasformare un sito militare (come l’Armory Show) nella succursale povera di un museo d’arte contemporanea (come altre sezioni, fra cui Clandestini concepita da Bonami, tentano di fare). E tuttavia solo così l’Arsenale dispiega il suo potenziale narrativo e visionario, come mostra Cosmic thing di Damián Ortega, installazione (riprodotta spesso dalla stampa, a ragione) in cui ogni singolo pezzo di una maggiolino – dalla carrozzeria al tergicristalli – è isolata e sospesa nel vuoto, interagendo sia con lo spazio circostante sia con lo spettatore che, girandogli attorno, riassembla questo “oggetto cosmico” con il lavoro dell’immaginazione. Insomma, solo così il luogo è in grado di esporre prima di tutto il suo dispositivo, e Orozco ha saputo coglierlo e integrarlo con intelligenza nella sua strategia critica. Carmit Gil Bus, 2002 e Rivane Neuenschwander, Globos 2003 – (foto di Gaia Tedone) Musei sotto dittatura Seguendo una logica e una sensibilità diversa, per Fred Wilson – rappresentante degli Stati Uniti – il luogo con cui confrontarsi è invece la Venezia commerciale e multiculturale, anello di congiunzione fra Oriente e Occidente, e in particolare il ruolo dei mori (spesso africani musulmani) e la loro rappresentazione nella pittura (Carpaccio, Veronese, Bellini) e nelle arti applicate. Un lavoro maturo sull’iconografia politica dei neri che prende partito per le costruzioni identitarie indagate dai cultural studies. Negli spazi del padiglione il materiale storico viene presentato come una collezione d’arte antica, al fine di mettere in gioco i significati veicolati dall’istituzione museale e la sua capacità di fare storia, di scrivere i movimenti sociali dell’arte. Sul rapporto fra modernità e museo lavorano anche Ilya e Emilia Kabakov alla Fondazione Querini Stampalia: nelle sale espositive si gira attorno alle gambe dei visitatori giganti del XIX secolo, mentre sul muro si intravede la parte inferiore di quadri antichi che scompaiono oltre il soffitto, come i loro spettatori. All’altezza dei nostri occhi – cui è negata l’esperienza di vedere oltre – sono invece appese una serie di disegni, giusto sotto le pesanti cornici dorate dei quadri. Diversamente, Bonami proclama la “dittatura dello spettatore”, espressione che suggella la Biennale e che, pur trattandosi solo di un suggerimento, troviamo vuota e infelice. Non è un caso che nessuno si sia preso la briga di indagare a fondo la questione: più che una tematica critica legata alle teorie viewer-oriented, sembra infatti nascere dalla logica dei “musei-azienda”, preoccupati di creare eventi che attirino più “consumatori” possibili, della serie: “i video sono troppo lunghi e le sculture troppo monumentali? allora vi daremo cortometraggi e composizioni tascabili”; “le mostre si snodano attraverso troppe sale? allora lo sponsor vi offrirà un caffè e una poltrona”; “le opere sono troppo impegnate sul profilo politico-sociale? allora vi offriremo immagini e perline colorate” e così via. Sì, l’idea di fondo è quella di ridare centralità all’esperienza individuale del singolo visitatore contro il pubblico anonimo per cui viene predisposto un tema e stabilito un percorso, tipico della “Grande Mostra” (quella che i Kabakov mettono efficacemente in scena). “Poiché ci siamo abituati a vivere in un mondo di immagini, abbiamo perso la nostra visione del mondo”, e così Bonami propone – orribile neologismo che pare non abbia avuto un seguito – il “Glomanticismo”, ovvero “una nuova condizione in cui l’occhio e lo sguardo sono al centro dell’esperienza individuale”. Un modo di articolare la complessità diverso ad esempio dalla Documenta di Kassel (al centro del bersaglio polemico per i suoi intrecci fra esperienza estetica e pratica politica), ma che finisce per somigliare, a mio avviso, ad un gradevole safari nella giungla della creazione contemporanea (“il risultato non dovrebbe essere una mostra complessa, ma una mostra fatta di tante complessità”). Ci sembrano dunque più proficui i confronti serrati di Orozco, Wilson e Kabakov con, rispettivamente, il luogo, la città e il museo. Rudolf Stingel, Untitled, 2003 – (foto di Gaia Tedone) Il muro della Biennale Se è vero che ogni Biennale deve fare i conti con l’edizione precedente e con il “museo immaginario” dello spettatore, è altresì vero che in ogni Biennale – ecco il secondo aspetto su cui insistere – è iscritto il suo fallimento. Non esistono Biennali riuscite. Senza cercare le cause nel 1895 – anno della sua fondazione – basti pensare che il padiglione premiato è stato quello del Lussemburgo, vicino al ponte dell’Accademia ma nascosto come solo a Venezia può succedere. (Perdersi a Venezia non è soltanto l’unico modo per girarla né un’attività oziosa, come dimostra Parsifal a Venezia, primo e ultimo libro scritto dal compositore Giuseppe Sinopoli, figura che penso con affetto e nostalgia ogni volta che girovago per calli e sestrieri.) Non solo i padiglioni dei Giardini offrono una rappresentanza ristrettissima – storia tutta geopolitica – degli stati invitati, europei e non, ma lo stesso criterio da campionato olimpionico incentrato sulla specificità nazionale è oramai obsoleto e inutilizzabile. L’artista scelta dal Lussemburgo ad esempio si chiama Su-Mei Tse e ha studiato in Francia, e il suo lavoro seduce proprio per la molteplicità inconciliabile e contraddittoria degli elementi culturali da lei stessa incarnati. Una ricerca in sordina che procede per sottrazione, trovando il risvolto poetico della tecnologia, la musicalità delle immagini o la capacità spaziale nella scansione di un ritmo, come nei violoncelli il cui suono si confonde con quello prodotto dalle scope degli spazzini, o nelle clessidre che seguono il ritmo organico del respiro. Ma l’artista che ha affrontato di petto la questione è stato Santiago Sierra, con un muro (già fatto costruire alla Lisson Gallery di Londra) alto fino al soffitto che ostruisce l’ingresso al padiglione spagnolo. Resta l’accesso sul retro, peccato che un poliziotto inflessibile abbia l’ordine di far entrare solo i cittadini spagnoli muniti di passaporto. Ho assistito ad una scena (che immagino si sia ripetuta spesso) in cui una signora bionda – inferocita e indignata – urlava al poliziotto che la vera arte è espressione di libertà mentre un altro visitatore la rimbeccava difendendo la libera scelta dell’artista di non far entrare la signora. Il muro nell’arte contemporanea ha già una sua storia (che tuttavia mi sembra resti da scrivere) ma, lo si sarà capito, quello di Serra non deve nulla alla tradizione della minimal art e il tentativo di accostarlo ai muri della pittura astratta e informale spagnola, di reinserirlo appunto in una tradizione nazionale, non solo si limita ad attutire l’opera forse più politicamente violenta della Biennale, ma manca clamorosamente il bersaglio, finendo per iscriversi nella logica sotto accusa. Certo, il tema della frontiera non è in primis una critica all’istituzione secolare della Biennale – iscrivendosi piuttosto in un filone di indagine e di intervento sociale di cui ci piace ricordare il gruppo italiano Multiplicity – ma quest’ultima diventa il palcoscenico perfetto per rilanciare il problema e per propagarne la eco. Difficile insomma concepire una Biennale senza frontiere e la situazione attuale è quella di un fitto calendario di eventi internazionali disseminati nel tessuto della città: se questo ha allargato notevolmente la partecipazione, le fondamenta del problema restano ben salde. Come riformare il sistema Biennale? Un curatore può tanto? Per ora ci si limita a selezionare gli artisti validi senza tenere conto dello sfondo generale; questa edizione non fa eccezione, perché subito dopo averne parlato male in generale, la critica e il pubblico non ha fatto altro che concentrarsi sui singoli artisti e sulle singole opere, fuori dalla fitta rete di sogni, conflitti, dittature nonché dagli otto temi delle mostre che si snodano (e si confondono) lungo il serpentone dell’Arsenale: clandestini, smottamenti, sistemi individuali, zone d’urgenza, strutture della crisi, rappresentazioni arabe, quotidiani alterati e utopie. Di queste impalcature molti non sanno che farsene. Tobias Rehberger, 7 ends of the world, 2003 – (foto di Gaia Tedone) Pittura/Painting Già, ma qual è lo sfondo critico di Sogni e conflitti se “la dittatura dello spettatore” sembra un titolo del tipo “invasione degli ultracorpi”? Un inciso, prima di tutto: si può discutere a lungo sulla necessità o meno di mantenere l’attuale sistema di premiazioni, per quanto non sarà mai l’aspetto agonistico ad ispirare la Biennale (minata piuttosto dagli interessi forti delle gallerie). Tuttavia, finché si mantiene – a torto o a ragione – questo sistema, ci si dovrebbe comportare di conseguenza e dare il giusto rilievo agli artisti premiati. Mi riferisco in particolare a Carol Rama, Leone d’Oro alla carriera, le cui opere sono ammassate su una parete semibuia di Ritardi e rivoluzioni e che meritavano una retrospettiva fuori dal circuito dei Giardini. Un’occasione perduta. Ad ogni artista, premiato e non, è dato il suo spazio e niente più: Bonami preferisce i piccoli assaggi alle abbuffate, le piattaforme multiversali alla linearità del percorso monografico come è ben evidente in Pittura/Painting al Museo Correr: cinquanta opere per cinquanta artisti da Rauschenberg al gettonato Takashi Murakami. Mentre passo davanti ad un quadro di quest’ultimo ricordo, per un cortocircuito mentale, la sublime retrospettiva del ’97 su Anselm Kiefer allestita negli stessi spazi e il relativo catalogo con un testo di Cacciari. Ricordo persino la disposizione di alcune opere immense, il modo in cui gli strati grumosi della materia si mettevano in tensione con le sale del museo che si affacciano su piazza san Marco. Finché mi imbatto nel minuscolo Kiefer da cartolina scelto da Bonami (se ricordo bene tra Kippenberger e Baselitz) e lo riconosco soltanto quando mi salta agli occhi l’etichetta. Qualcosa, evidentemente, non funziona: l’idea di una pittura come gesto solitario, perseguita attraverso l’esposizione di un esemplare unico per artista, naufraga in un assordante e al contempo livellante effetto zapping. Eppure – per quanto suoni strano – è proprio in questa collettiva di cara e vecchia pittura che risiede il più genuino e innovativo proposito critico della Biennale. Riassumiamo: mentre “pittura” evoca la tradizione europea, “painting” evoca al contrario l’innovazione, suggellata dalla premiazione di Rauschenberg alla Biennale del ’64. Mentre in Europa le ricerche astratte, formali e strutturali sulla pittura costituivano l’unica risposta ai postumi della guerra, vista la difficoltà di elaborarne il lutto, in un’America priva di memoria storica (luogo comune?) Rauschenberg trovava invece l’ambiente idoneo per far confluire all’interno dello spazio della tela un frammento di realtà quotidiana. Da una parte l’indagine introspettiva e l’analisi esistenzialista, dall’altra la registrazione in presa diretta delle sollecitazioni esterne; da una parte la tela “rappresentava una superficie, un muro, una barriera”, dall’altra “un recipiente, uno schermo”. Tuttavia questa polarità Europa-America (cui si aggiunge in battuta finale, credo come sintesi, il Giappone) non convince fino in fondo e restituisce un quadro semplificato, parziale e persino fuorviante delle ricerche che si svolgevano nei due paesi. A pagarne le spese è, come stretta in questa morsa, la pittura italiana – qui rappresentata da Burri, Fontana, Castellani, Guttuso, Gnoli, De Dominicis, Clemente, Manzelli – considerata come impermeabile alla crisi, vincolata alla tradizione, sorda alle rivendicazioni e alle rivoluzioni estere nonché malata di “solipsismo patologico”. Infine la mostra è concepita come una “cronaca della pittura”, per cui non si sa più se il criterio che fonda il rapporto pittura/painting sia geografico o cronologico o se corra su questo doppio binario. Inutile insistere, dopotutto il livello dell’esposizione, svincolando le opere dal loro collante critico, è molto alto (per un’analisi più puntuale rimandiamo ad un articolo di Francesco Poli apparso su il manifesto, 15 giugno 2003). Senza dimenticare le personali di Alex Katz e Marlene Dumas organizzate dalla Fondazione Bevilacqua, con i loro lavori diversissimi sulla figura umana. Carmit Gil Bus, 2002 – (foto di Gaia Tedone) Critici rizomatici Conviene invece consacrare un paragrafo alla strategia critica – piuttosto che alle singole opere, in generale poco convincenti – sottesa a Clandestini, l’altra mostra curata da Bonami (assieme a Ritardi e rivoluzioni e in collaborazione con S. Chivaratanond e S. Cosulich Canarutto). Comme il faut, allo spettatore è richiesta una partecipazione attiva, un coinvolgimento del suo sguardo, al punto da esser designato “responsabile del proprio destino”. Tuttavia quando cerchiamo di circoscrivere il tema del clandestino tutto si dissolve in una nebulosa, visto che “non è stato formalmente posto alcun collegamento tra esso e uno specifico aspetto dell’esposizione”. Più radicalmente, quello del clandestino è definito come un semplice pretesto che può riguardare tanto la condizione dello spettatore che quella dell’artista che ancora quella dell’opera in sé. Questa situazione di clandestinità pervasiva è il pharmakon – il veleno e la cura, la malattia e il rimedio – alle esposizioni concepite secondo criteri tematici e geografici (ovvero, viene da pensare, l’antidoto alla Biennale stessa!). Il curatore, come un monaco orientale, pratica la difficile arte della non-scelta: con sorpresa apprendiamo come la mostra e il testo che la affianca non propongano affatto una tematica, non siano un atto di interpretazione né, figuriamoci, selezionino gli artisti secondo criteri prestabiliti, i quali certo “eludono ogni tipo di appartenenza formale. Al giorno d’oggi siamo tutti clandestini”. Evviva, dirà qualcuno, ma ne siamo poi tanto convinti? A noi sembrano qui condensati – ad un livello stupefacente di perversione critica – i cliché più deleteri del deleuzismo e del suo vocabolario, rimasticato dagli operatori dell’arte contemporanea, dallo schizo-soggetto al rizoma. E’ difficile restare tranquilli mentre si legge che la clandestinità permette agli artisti di scegliere se essere nomadi apolidi o se legare la loro identità ad un territorio (p. 123 del catalogo)! Il trauma della deterritorializzazione, delle soggettività in conflitto, dei processi identitari e comunitari nonché dell’agire politico sembrano ridursi ad una metafora edulcorata se non addirittura ad un problema di stile di vita, da scegliere a seconda dell’umore: oggi mi vesto da clandestino o da cittadino? da nomade o da stanziale? da apocalittico o da integrato? Una clandestinità fashion, quasi da videogame, ignara delle dinamiche che attraversano la realtà sociale nella tarda modernità, e che può raccogliere consenso solo ad un’inaugurazione ad inviti o sulle pagine di un catalogo patinato sponsorizzato. E’ il trionfo, in altri termini, del multiculturalismo liberale che – come scrive Žižek in Benvenuti nel deserto del reale (Roma 2002, p. 15) – “non è altro che un’esperienza dell’Altro deprivato della sua Alterità (l’Altro idealizzato che balla danze affascinanti ed è dotato di un olistico approccio alla realtà perfettamente ecologico, mentre altri aspetti – come il fatto che picchia la moglie – vengono sistematicamente tralasciati)”. E’ inoltre l’aspetto parossistico dell’esaltazione dell’ibridismo postmoderno che distingue – come argomenta giustamente sempre Žižek in Il soggetto scabroso (Milano 2003, p. 278) – “da un lato l’accademico cosmopolita di classe alta, sempre in possesso dei visti giusti che gli permettono di attraversare i confini senza problemi […] e di ‘godere della differenza’; dall’altra il povero lavoratore (im)migrante che ha lasciato la sua casa a causa della povertà o della violenza (etnica, religiosa), per il quale […] l’essere sradicato dal suo modo di vita tradizionale coincide con uno shock che destabilizza la sua intera esistenza”. Molti artisti, è vero, adottano una logica simile (ricordo ancora C. David criticare duramente l’osannata Shirin Neshat per aver restituito un’immagine oleografica del Medio Oriente), ma molti altri vivono le contraddizioni di una prassi sospesa, per l’appunto, fra “sogni e conflitti”. Ribadirlo in questo contesto non è una questione pruriginosa. Un secondo puntello critico, più generale: l’attitudine alla non-scelta permea non solo Clandestini ma l’intera Biennale. In quanto curatore Bonami non ha voluto abbozzare nessuna forma del caos, come dimostrano le deleghe organizzative ad una équipe geograficamente ben calibrata di critici internazionali, la dispersione e la confusione delle mostre all’Arsenale (il premio va a Zone d’urgenza, un bazar con una pletora di artisti coreani osceni e un video di Adel Abdessemed con una partouze in una galleria che poteva eccitare solo Catherine Millet), la moltiplicazione illimitata delle presenze artistiche (solo nel padiglione olandese se ne contavano cinque!) e una regia generale debole che dissipa la ricchezza delle proproste. Difficile orientarsi quando i criteri di scelta, i dispositivi critici sono così laschi (ma dove è finita la dittatura dello spettatore?). In Francia, ad esempio, a questo approccio antigerarchico viene contrapposto – e credo preferito – quello di un Eric Troncy (Coolustre) che rivendica la centralità della figura del curatore e una sorta di ‘esposizione d’autore’. Una strategia che mi sembra più promettente. Rivane Neuenschwander, Globos 2003 (foto di Gaia Tedone) Migrazioni d’ombre Alcune opere, nell’affastellamento generale, ‘suonano più giuste’, sembrano muoversi in una direzione consonante con le proprie inclinazioni. Nonostante il premio a Su-Mei Tse sia meritatissimo e condivisibile, nei giorni dell’inaugurazione molti parteggiavano per Olafur Eliasson – artista che dà il meglio di sé confrontandosi con superfici immense, come dimostra l’installazione annuale nello spazio centrale della Tate Modern di Londra – che ha trasformato il padiglione danese in un percorso di dislocazione sensoriale per il pubblico. Tuttavia alcuni – me incluso – hanno subito il fascino dell’installazione di Michael Rovner, artista israeliana che ha già esposto a Roma (alla galleria Bonomo, al palazzo delle Esposizioni e da ultimo al vecchio mattatoio, sede distaccata del MACRO) e di cui ho sfogliato un prezioso catalogo della mostra tenuta, se ricordo bene, un paio d’anni fa a Los Angeles. Del padiglione israeliano vorrei ricordate almeno due opere. La prima: lungo tutta l’altezza delle pareti di una stanza semibuia, sono proiettate minuscole file orizzontali di uomini che si tengono per mano e marciano lentamente. Sembrano graffiti di una caverna, o una scrittura geroglifica che, in quanto tale, non ha ancora scelto se farsi immagine o parola. La seconda: su dei tavoli bianchi sono inserite delle provette di vetro rotonde dentro cui una massa di esseri umani ripresi dall’alto si muovono disordinati come microbi. Si allontanano e si avvicinano in cerchio – con effetti che richiamano i celebri preti immortalati da Giacomelli – fino a confondersi o a formare matasse inestricabili e informi, oppure girano attorno ad un asse come lancette di un orologio. Le riprese sono state effettuate dall’artista in Russia, Romania e Israele, per quanto delle sagome umane non resti che un’ombra: ombre senza identità, senza sesso, senza razza. In altri termini, si tratta di immagini della migrazione: figure anonime, asessuate, apolidi che costituiscono un’umanità silenziosa che girovaga senza bussola né meta, formicola o sciama come un branco. Il ‘fare comunità’ di questi uomini migranti è tutto rappreso nella dinamica del passo, nell’impulso coatto ad andare avanti o a girare in tondo. Non è facile trovare artisti che lavorino così felicemente sul rapporto fra poiesis e aisthesis, fra il fare dell’arte e il ‘dare a vedere’, fra pratica artistica e costituzione sensibile-sensuale del visivo. Una valutazione che, così formulata, me ne rendo conto, suona un po’ classica, quando al contrario quello di Michael Rovner è un lavoro dirompente che – assieme alle sue implicazioni politico-sociali – fa intravedere una nuova direzione alla video art nel lungo e complesso cammino di emancipazione dell’immagine dal supporto del quadro, ovvero dal sistema della rappresentazione. Ci sarebbe molto altro da dire ma, per finire, vorrei ricordare, a volo d’uccello, altre opere: Ruri nel minuscolo padiglione islandese, che ha archiviato il suono e l’immagine di una cinquantina di cascate della sua terra; l’ambiente adamitico della pittura materica e l’allestimento rosso-verde di Chris Ofili; gli altari dell’austriaco Bruno Gironcoli (maestro, fra l’altro, di Franz West), concrezioni simboliche dell’inconscio; le mise en scène del fotografo turco Nazif Topçuoglu che sovvertono sottilmente i cliché dell’educazione sociale nazionale; il video di Pavel Mirkus, in cui i movimenti di una gru di una fabbrica automobilistica giapponese seguono il ritmo di un sutra buddista registrato in un tempio nella stessa regione; le foto illuminate dall’interno à la Jeff Wall dell’ugandese Zarina Bhimji; il divertente video di Tadasu Takamine su una coppia di artisti che scolpisce in creta i ritratti dei presidenti americani; la mostra Ritardi e rivoluzioni al padiglione Italia; il testo compiuto e coerente di Igor Zabel su Sistemi individuali all’Arsenale. Per concludere, menzione speciale per l’opera più kitsch va, a mio insindacabile giudizio, al padiglione della repubblica ceca con la motivazione dell’ardito e inedito accostamento fra un atleta agli anelli e il Cristo sulla croce. Ellen Gallagher, Pomp-Bang, 2002 – (foto di Gaia Tedone) Public relations e salti nel vuoto Ovvero qualche incontro di varia natura. Lungo il viale che porta al Padiglione Italia sfreccia un triciclo telecomandato con un manichino di Maurizio Cattelan che guarda malizioso i passanti e poi fugge via: durante l’inaugurazione si è costretti a ridere (anch’io non resisto ma ho l’impressione di non essere l’unico a fingere un divertito stupore), sennò si trasgredisce il rigido protocollo della critica d’arte italiana. E’ la classica torsione della trasgressione contro un sistema che si trasforma presto in trasgressione perfettamente integrata nel sistema. Gli elogi sperticati rivolti a Cattelan in quanto enfant terrible costituiscono la versione più aggiornata del conformismo del gotha dell’arte contemporanea. Durante la mia seconda visita non c’è traccia di questo molto simpatico e perturbante triciclo: forse – gesto sovversivo e sublime – è caduto in laguna; ad ogni modo il Cattelan che continuo a preferire è quello invisibile che mescola immagini nella rivista Permanent food. In una Venezia in cui nelle serate africane si incontrano uomini a torso nudo, le feste pullulano e si moltiplicano nelle bocche di chi ne parla nella gremita San Polo, axis mundi, calamita dell’arte internazionale in cui potresti incontrare chiunque. Nell’arco di pochi metri, mi imbatto per caso in un gruppo di amici francesi e italiani. La mattina, in fila per ottenere il pass, un’austriaca di Graz, a causa di un evidente colpo di sole, mi parla a raffica dei massimi sistemi e tesse l’elogio del mondo finché, confessandogli di non conoscere la sua città, snocciola una sfilza di musei monumenti manifestazioni. Come un ufficio del turismo, finisce per pubblicizzarmi un festival: le informazioni su internet, il sito me lo scrive sulla moleskine. Il giorno dopo la intravedo seduta e sudata ad un bar alle Corderie, mentre ingurgita una birra assieme ad un paio di amici. Improvviso un saluto e lei alza a malapena una mano senza neanche guardarmi. Addio festival, good bye Graz. Alle Corderie ecco infine Francesco Bonami, all’ombra di un albero alto quanto lui, con la giacca in mano, in maniche di camicia su fino al gomito, lo sguardo poco lucido e perso nel vuoto. Sembra uno dei clandestini cui ha dedicato la deludente mostra all’Arsenale. Il gruppo di architetti A12 ha realizzato in uno spiazzo dei Giardini La zona, una simpatica e leggera struttura rosso fuoco in cui ad alcune sale espositive si accompagna uno spiazzo chill-out, di decompressione dall’overdose visiva. Per sfuggire dalla fortezza Calvino suggeriva (non ricordo più dove) di confrontare la mappa della prigione perfetta con quella del castello e vedere dove non combaciavano: senza volerlo sono finito in quel punto preciso. Dopo l’apparente intimità degli interni domestici di Alessandra Ariatti e dopo aver interagito con le enormi biglie di Patrick Tuttofuoco, con il sentore del lato malinconico di questo artista premiato con un Leone nella fascia under 35, mi sono diretto verso un’uscita secondaria e sono letteralmente volato nel vuoto, fuori dal padiglione. Sì, è vero, c’erano due gradini, ma ben nascosti dai nostri architetti; risultato: una notte al Pronto Soccorso a SS. Giovanni e Paolo, fra lettini, lastre, ingessature e un infermiere che chiuderebbe volentieri cose come la Biennale. Durante la mia seconda visita, La zona è chiusa per “problemi tecnici” – mi chiedo quali. Ellen Gallagher, Pomp-Bang, 2002 – (foto di Gaia Tedone) Risalgo le scale della stazione S. Lucia con una valigia di libri, cataloghi e comunicati stampa, e ho l’impressione di aver pulito il mio cestino mentale da tutte le opere viste e riviste. E’ sopravvissuta solo la lettura notturna della guida della città, trovata nel comodino dell’albergo, con l’elenco di alcuni elementi architettonici che puntualmente registro e poi dimentico: l’altana, il fumaiolo, lo stazio (pontile a pensilina dove sostano le gondole), la vera da pozzo al centro dei campi, le briccole (poli che in mare segnano la viabilità)… Segni che sopravvivranno ad ogni biennale, a differenza delle opere, inghiottite a novembre nella melma della laguna. Forse Venezia – come suggerisce Tiziano Scarpa – è veramente un pesce.