riflessioni sulle nuove frontiere della metropoli diffusa
” […] Eppure la città, vissuta come luogo di perdita, di sfarinamento dell’esperienza-luogo di ‘tempo perduto’ e irredimibile, da Proust a Blade Runner – è il luogo in cui sopravvivono immagini che sembrano in grado di resistere all’usura delle cose e dei concetti. Immagini che si occultano, si trasformano, ma che in questa trasformazione trovano anche una nuova vita….La città è il luogo in cui, proprio attraverso il dissidio che la caratterizza, è possibile un rapporto peculiare, specifico con la verità… una via d’accesso all’essere vero. Questa via d’accesso si apre dunque all’interno della città moderna, nel cuore stesso della cultura metropolitana.” Tratto dall’introduzione di Franco Rella al testo, La fine del Classico, P Eisenman, Edizioni Cluva, Venezia 1988. Nello scritto dal titolo Interazione ‘reale’ o alterazione ‘virtuale’, ponevo un quesito la cui importanza era basata sul tipo d’evoluzione assunta dai rapporti sociali e relazionali di un individuo, inseriti in un ambiente particolare qual è quello della città. Si rifletteva come queste possibilità comunicative, potevano nel tempo, essere inficiate da una velocità di comunicazione che mai, come in questi tempi, ha raggiunto risultati meritevoli di un’assidua e interessata osservazione. L’architettura, apparentemente, è in effetti, un argomento complesso e lontano dal nostro quotidiano invece, essa s’inserisce direttamente nei nostri ‘rapporti sociali-relazionali’ più di quanto noi possiamo immaginare; a volte, lasciatemelo osservare, riesce a determinarne la vera struttura. Con ‘rapporti sociali-relazionali’, intendo proprio quella interazione con gli altri individui e anche con l’ambiente in cui si svolge l’incomparabile e ineguagliabile ‘quotidiano’. Pensandoci bene, quella che osserviamo nella nostra vita, altro non è che un’interminabile sequenza di spazi. Forse appena scorti, forse vissuti, forse immaginati o mai visti, forse desiderati. Una raccolta d’immagini (spazi-architettonici) che rivela la nostra sensibilità per quanto si sono vissuti, una sequenza ininterrotta che risulta poi essere la nostra vita nella complessa e differenziata città. Purtroppo, di questi tempi, non siamo certo supportatati da collezioni di stimoli ed esperienze nuove o esaltanti, ma al contrario la collezione di spazi e immagini che ci sono proposte riguardano miserie umane, esaltate da ‘narrazioni’ giornalistiche e ‘immagini’ violente quanto, per questo, accattivanti. La perversione da cronaca-cronica, scandaglia oltre il visibile, supera il citabile sfiorando l’insopportabile. Gioca schizzofrenicamente tra il ‘mai visto’ e il ‘mai detto’ per picchi d’ascolto, magari chiamandola televisione sperimentale. Credo fermamente che esista una televisione kamikaze i cui filmati fanno esplodere bombe visive le cui vittime non sono individui ma le percezioni e le sensibilità. Nell’indifferenza più assoluta questo annientamento percettivo, abitua alla miseria umana e si crogiola nei suoi limiti. Il risultato è l’ angoscia, l’ansia, l’insicurezza generalizzata data da filtri percettivi falsificati e deformati. Nell’assoluta ignoranza di quale potenza emozionale, possano innescare le immagini lasciamo purtroppo che siano utilizzate senza un’adeguata regolamentazione. Proprio questi sono anche i casi in cui la città rivela la sua vera entità, l’habitat dell’uomo urbano. Con i suoi vantaggi per il bene sociale e con catastrofici limiti. Quando l’uomo urbano scoprirà che la sua realtà sociale può essere considerata il centro di un mondo possibile, in cui le relazioni assumono l’importante elemento che infonde ricchezza e conoscenza, allora potremmo facilmente individuare la presenza di relazioni che, ora lo spazio architettonico tenta di evidenziare ma che non raggiungono lo scopo del loro vero e interessante potenziale. Esempio eclatante, utile come esempio per spiegare meglio questo concetto e per delinearne una definizione dell’ uomo ‘urbano’, la creatura che ha affinato alcune sue caratteristiche relazionali e ne ha lasciate sopire delle altre. E’ stato capace di sviluppare o distinguere, dal grande rumore di fondo della nostra insaziabile e sempre più fagocitante epoca, essendo diventato l’uomo urbano il Robinson Crosue di una grande isola mediatica in cui le connessioni stabiliscono un equilibrio percettivo radicato su una buona dose di cultura mass-mediatica. Lo scopo è quello di rileggere decodificando, sicuramente con maggiori risultati interpretativi, la condizione di sovraesposizione del ‘reale’. Forse siamo arrivati alla soglia che precede latanto discussa società del controllo (siamo purtroppo sulla buona strada, un po’ per motivi; prima di sorveglianza poi di sicurezza ormai irrinunciabili) intesa come attimo quotidiano condiviso e a volte ‘regolato’ esternamente. Rimanendo saldamente legati al nostro continuo discorso sull’architettura e alle sue forme d’ espressione e di mutazione progettuale generate dalle nuove tecnologie, confermiamo con una certa soddisfazione nell’osservare come l’uomo abbia assunto una maggiore responsabile fiducia nel costruire, il proprio spazio urbano, finalmente uno spazio ricercato e qualitativamente relazionante quindi ‘architettonico’. Si è parlato di ‘uomo urbano’ definendo il suo stato, come una ritrovata ‘natura’ ancora non espressa ed non evidenziata nella giusta maniera, bisognosa di trovare nuovi canali connettivi e comunque comunicartivi che La città desiderata, poi ha spiegato meglio. Ultimamente, in rete, la parola ‘urbano’ ormai dilaga. Ma devo apporre a tutto questo un’osservazione che si delinea più come una ‘chiosa’ necessaria. Dalle evidenti e fin troppo discusse mutazioni della percezione umana rispetto al suo ambito spaziale (architettonico) vitale, le trasformazioni tecnologiche contemporanee, abbiamo visto, hanno praticamente preteso, per poter sopravvivere, un adattamento che ha radicato le sue regole proprio tra le nostre abitudini e nei nostri spostamenti, sollecitando sensazioni e compattando percezioni. Si sono determinate delle ‘varianze’ nelle sue coordinate percettive. E’ l’ambiguo risultato che l’evidente possibilità di controllo ‘virtuale’ della realtà, può averci comunicato, convindoci davvero di controllarne le simmetriche varianti naturali.Da L’ Uomoaltrovesi è passati a L’Uomo Diffusoe da questi, ora alL’Uomo urbano. Un po’ per l’insistenza nella trattazione degli argomenti, un pò perché sono effettivamente questi che rappresentano, secondo me, il punto debole del nostro tempo, diventa sempre più reale la possibilità di un importante ‘avvicinamento’ dell’architettura all’uomo. Mi rendo conto che lo sky-line delle città, di conseguenza, l’urbano inteso nell’accezione di estensione primaria, direttamente collegata alle dinamiche percettive dell’uomo, tenta inesorabilmente di ‘avvicinarsi’ equivocando questa ‘vicinanza’ diventando, così, una formapossibile di controllo assiduo, magari in diretta, sulla libertà di interagire. La situazione è molto complessa e ammette solo soluzioni a loro volta abbastanza difficili e anche compromissorie a livello di responsabilità progettuale legata direttamente allo spazio costruito. Allora vengono alla mente, quegli ambiti variabili, quegli ‘oggetti a reazione poetica’, quelle esperienze da laboratorio, che hanno intriso la storia dell’architettura di meravigliose colte invenzioni. Nostalgie? Assolutamente no! Sapete perché? Il segreto è nelle definizioni che l’architetto stesso dà ai suoi esperimenti da tavolo, dopo che ne ha verificato la genesi, la pratica, i limiti formali gli sviluppi progettuali; solo allora non c’è computer o rendering che tenga. Infatti solo allora può succedere, ad esempio, che il solo uso del legno di betulla (ricerca di Alvar Aalto) può generare un mondo possibile. Come? Basta osservare le immagini, facendone una raccolta visiva. Alvar Aalto, particolare di lavorazione del legno’tirato’ e ‘curvato’ Certo la percezione assume un’importanza fondamentale per la relazione con lo spazio in cui viviamo, per quello immaginato, per quello realizzato e quello virtualmente modificabile. Continuamente stimoliamo tali possibilità creando fantastiche visioni e paesaggi alternativi. La ricerca di questi scritti tenta di verificare come la percezione dell’ambiente può divenire fonte inesauribile di ‘mondi possibili’ d’interpretazione che aggiunga ricchezza all’esistenza dell’uomo. Ogni oggetto, dunque, osservato produce intorno a sé un’energia che assorbe totalmente l’intorno in cui è inserito definendone un ‘centro’ compositivo (teorie di Boccioni già trattate in Balzi necessari all’Architettura dell’interazione). Appena lo sguardo e la visione ‘interpretante’, varia la sua mira, anche di poco, ecco che la composizione influenzata dalla sublime ansia di ricerca, tende a chiudere l’esperienza conoscitiva ponendo all’osservatore-indagatore la scelta per farsi catturare da un altro centro come aggiornamento visivo, individuando così una forma emergente da un fondo indistinto. Un infinito mondo di centri informativi a disposizione. Ecco allora che la storia di qualunque oggetto, può generare secondo l’aspirazione, l’emozione, la sensazione di ognuno, delle soluzioni di sistemi progettuali che potranno diventare ‘materia’ prima dell’immaginario mondo virtuale e perché no, di quello materiale. Per fare un esempio tra tanti potremmo approfondire quali elementi percettivi e rivoluzionari poteva aver contenuto l’affermazione di F.L.Wright quando visitando ed ‘osservando’ il ‘contenitore’ finlandese all’esposizione di New York del ’39 verificò la genialità di A.Aalto. Bene, per cercare di comprendere il fenomeno percettivo e dichiaratamente progettuale, chiediamoci cosa dell’opera finlandese, potrebbe essere stata percepita, rielaborata, maturata, sperimentata, riprogettata e realizzata, di quella serie di flessuose curve diagonali anche ‘incombenti’, che esaltavano lo spazio architettonico prima di organizzarlo. Nessuna foto pubblicata ha mai dato l’idea dello spazio creato in quel luogo. E’ stata una delle architetture della storia dove forse si sentiva l’urlo dell’architettura capace così definita, di emettere finalmente suoni diversi, vibrazioni fisiche e cognitive fino ad allora mai percepite. Un fragore visivo e percettivo che solo poche altre opere architettoniche hanno dato prova della sua esistenza. Già nello scritto de L’Ambito variabileabbiamo parlato dei ‘nastri’ di Aalto, che ora, ritornano a fluttuare in ambienti riaggiornati e alternativi, Particolare del padiglione Finlandese all’ Esposizione Universale di New York del 1939 (destra), Particolare delGuggenheim di New York del 1946 (sinistra). certo non ricercati come possibilità espressive e costruttive del ‘legno di betulla’, ma realizzati con programmi di rendering di nuova generazione; la proiezione nello spazio di quelle linee, quelle curve sinuose evolutesi e trasformatesi dal nello spazio ha portato a riscoprire nuove funzioni e destinazioni d’uso realizzate nel progetto del centro di arti contemporanee a Roma di Zaha Hadid. Zaha Hadid, progetto per il Centro delle Arti contemporanee, Roma Ma arriviamo alla nostra ipotesi; quale percezione avuta dalla mente di Wright trasformò la muraglia inclinata della sala progettata nel ’39 dal maestro finlandese con l’inclinazione di nastri di quella che definisco io come ‘promenade urbana’ mitica del Guggheneim di New Yorkdel ’46. Alvar Aalto, Teatro dell’Opera, Essen- auditorio scuola di Otaniemi-centro parrocchiale Wolfsburg- Riola Vergato (Bo) E’ la storia di percezioni e rielaborazioni di forme e significati architettonici che liberano energia vitale, fondono sistemi ed equilibri di masse e volumi che a volte entrano in risonanza ma evidenziano la pratica costruttrice prettamente architettonica che alla tecnologia del tempo lega le colte teorie per una migliore esistenza dell’uomo nella sua ‘urbanità’. (sinistra) Wright -Collegamento verticale di Casa Kaufmann a Bear Run,Penna36-39 (destra)Aalto-Collegamento verticale di Villa Mairea Noormarkku37-39 Dopo la terrificante sequenza, ormai entrata nella memoria dei popoli terrestri, della distruzione delle torri gemelle, la prova di una, non accettazione di questo mondo. L’identico architettonico, che rappresentavano le due torri come simbolo del lavoro, delle relazione sociali commerciali è stato distrutto, il messaggio è passato chiaro, un attentato alle condizioni di libertà di movimento nell’urbano. La sogliain dissolvenza trova una realtà, l’ archittetura, come osserviamo giorno per giorno, amplifica la portata di questi nefasti accadimenti, essa stessa ne è vittima. La ‘società del controllo’ è alle porte, si rivela dalle piccole telecamere ormai sparse in mille angoli di una città, il concetto puro di urbano è forse racchiuso in questa sintesi visiva. Flussi ininterrotti di gente, e ronzii di telecamere accese su un uomo urbano sotto osservazione, forse una probabile dominazione dell’istante presente legata all’esplorazione continua di volti, espressioni caratteri somatici, abiti di culture e religioni diverse. E’ una tensione urbana che inietta una valore aggiunto di relazionalità alternativa alla socialità come motivo di espressione e si avvicina di più alla struttura principale dell’individuo; la città osserva l’ uomo urbano. L’interazione realizzata conduce alla differenziazione, l’architettura dell’urbano si comporta da catalizzatore di morfogenetiche individualità, una continua ricerca di una relazione da stabilire, una connessione da determinare, una forma da esaltare e un mondo possibile da realizzare. All’uomo urbano, e solo a lui, è data questa verità. Lo abbiamo analizzato iniziando proprio dal brano in apertura di Franco Rella. Senza scimmiottare il passato o tentare di dare un aspetto accettabile a mummie architettoniche, l’uomo urbano ha compreso benissimo che intorno a sé, quindi nella città, esistono luoghi la cui riconversione o flessibilità riprogettata può favorire delle destinazioni d’uso impensate che funzionino da completamento dell’urbano e lo arricchiscano d’ estensioni informative e articolazioni alternative che grazie alle tecnologie e ad una cultura urbana, possano dare una visione nuova per quella ‘raccolta’ d’immagini che la città ancora non riesce ad offrire. In fondo, cosa si era prodotto come ‘effetto collaterale’ agli androidi descritti nel racconto ‘Blade Runner’ di cui facevano ‘raccolta’? E di cosa faceva raccolta nel film di Wim Wenders Fino alla fine del mondo, Trevor McPhee? L’uomo urbano fa suo il principio secondo cui l’errore e l’errare, e lo spaesamento che ne consegue, sono un’arte da imparare, (Walter Benjamin). Nota direte