Un approccio diverso alla rete “i collegamenti”
Capitolo secondo – riconversioni funzionali Superata la stagione che costringeva all’asettica condizione d’isolamento tra mondi che appartengono alla stessa matrice percettiva e relazionale (archtettura, arte, estetica), ci troviamo ora, ad elaborare un diverso genere di intuizioni derivate da una pratica virtuale. La virtualità, abbiamo constatato e verificato in questi scritti, ha bisogno di regole e codici propri, un linguaggio per un’intelligenza diversa. La pratica di questa nuova intelligenza si presenta però, troppo dilazionata o frammentata come nello spazio di una città sconosciuta, in cui si perde energia psichica e tempo per spostarsi ad osservarla. Ciò che ha sempre tenuto distanti gli individui da un ‘uso’ umano dell’architettura (e quindi da una città) è la presunta simbiosi di questa, con la sovra-dimensione dei mega-interventi in cui l’insistenza della parola architettura, presuntuosamente sembrava collegata solo a quel determinato genere di scala costruttiva. Abbiamo però, verificato la creazione di una certa ‘distanza’ tra il nostro ‘luogo’ conosciuto e la speranza di nuove città virtuali, quindi generate per un ‘mondo possibile’ non attuale, senza che le nostre potessero essere prese in considerazione perché già ritenute superate e incapaci di mutarsi secondo i nuovi bisogni. E allora percettivamente il lavoro più semplice è stato quello di immaginare colate di cemento da diluvio universale per ricreare lo spazio mitico dello ‘zero’ architettonico dopo il quale ogni segno potrebbe elevarsi a ‘nuovo’ e ‘originale’. Niente di più errato. Niente di più sconsiderato. Niente di più lontano e fuori dalla nostra realtà. Una dimostrazione certo d’impotenza se non di resa incondizionata di fronte agli interrogativi che ci pone il ‘quotidiano’ architettonico. Come la mummificazione dei centri storici, dove l’esercizio ripropositivo di codici ‘classici’ mortificati, misteriosamente non muore mai. Colonne archi trabeazioni e frontoni ‘Chippendale’ (ancora miseramente post-modern), una pratica costruttiva già condannata dalla storia architettonica come infertile espressione d’impotenza espressiva e pochezza culturale. Ho sempre personalmente diffidato anche delle architetture perfette, specialmente quelle inserite in luoghi da cui ‘cercano la distanza’, oppure gli edifici lontani dalla vivifica città che alimentano condizioni compositive astrattamente ‘metafisiche’, si crogiolano in ‘aure’ arroganti e ostentatamente dimostrano appariscenti ‘sublimi’ profili. Strano a dirsi ma è così semplice scorgere dei punti deboli, ed allo stesso modo complessissimo interpretarli e tradurli in nuove e aggiornate soluzioni. Proprio all’interno dell’urbano, esistono nuove necessità di relazione, là dove il corpo vivo della città mostra le sue sicurezza e allo stesso tempo evidenzia i sensibilissimi ‘nervi scoperti’ pronti a recepire scariche elettriche di contatti rinnovati. E’ qui che nasce l’embrione stesso dell’archittetura. Sì, è proprio questo che è cambiato nel susseguirsi del tempo e della storia costruttiva dell’architettura. Tra iperbolici contorsionismi architettonici, dettati da movimenti dinamici delle confluenze tecnologiche della comunicazione, tra i cinematismi d’esperienze comuni per le trasformazioni compositive territoriali, alla consapevolezza della partecipazione alla costruzione colettiva di un territorio ormai impetuosamente e mirabilmente organico, l’ago della bussola urbana, avviluppato da un magnetismo non più legato a regole fisiche, ha mutato la propria posizione, seguendo i flussi di spettri magnetici creati da una multimedialità onnipresente. Non abbiamo avuto bisogno di vivere in allucinanti edifici ‘Metabolisticamente’ immaginati o cupe e pesanti atmosfere cittadine ‘Sironianamente’ definite. In un’epoca come la nostra dove l’attenzione per l’estensione microelettronica miniaturizzata, assume connotati ormai da trasmettitore mobile; continuamente in ‘stand by’, e funge da rivelatore di presenza visibile sullo schermo di una città, dimostra come le nostre coordinate sono sempre più legate indissolubilmente ad un’ urbanità capace di riprendere vigore, dimostrando la sua fiera ‘naturale’ continuazione ormai connessa oltre che con il corpo dell’umano anche con la sua percezione. L’uomo riscopredosi ‘urbano’ si lascia coinvolgere, ora più che mai, da un ‘vento’ informazionale, vettori multimediali continuamente trasmessi dall’ambiente circostante per dare ragione ad una relazionalità con lo spazio vitale, quindi architettonico, che stava svanendo. Allora sorge una funzione-fruizione diversa della città, una mutata RICONVERSIONE dei paesaggi percettivi di un centro o di tutto un complesso urbano, concepito più come un organismo che cerca continuamente il suo completamento avviluppando, zone d’attività informazionali, di ambiti variabili generati da sensi nuovi o alternativi, da cicuiti di collegamenti sovrapposti e reinterpretati in maniera opportuna secondo una flessibilità programmata sempre possibile. E’ diverso, quindi osservare gli edifici un tempo chiamati ‘contenitori’ e interpretarli come riserve di flussi mediali. Il concetto insuffla una dose di ‘rarefazione’ di vecchi principi e agevola una trasparenza concettuale all’idea che avevamo di corpo o massa pesante e mitica di ‘edificio’. Su questa base di ragionamento credo che il paesaggio urbano debba evidenziarsi secondo nuove categorie di giudizio generando altri spazi funzionali. E’ la percezione dell’esistente che è cambiata, ha mutato la propria essenza. Esempio semplicissimo; vi siete mai chiesti come potrebbe esse trasformato un semaforo sul quale supporto giallo, sono frequentemente attaccati volantini di diversa natura? E le colonnine elettriche, sono proprio nate per essere ricoperte di manifesti che non trovano più spazio sulle superfici verticali a disposizione perché strapiene di tante ma tante pseudo-informazioni? Cosa genera una ‘piazza’, un vuoto tra edifici o un ‘pieno’ di concrete sovrapposizioni di relazioni? Essa, individua un luogo di sensibile debolezza nel essuto cittadino o invece è un punto di forza per la vita dell’uomo urbano? Quali segni ed elementi comunicativi la definiscono? Forse i flussi di persone o delle direttrici geometriche tracciate da casuali contaminazioni (chiamate arredo urbano!?) quali una serie di panchine, lampioni, o parcheggi, ancor peggio isole per la raccolta differenziata, bancarelle, tettoie per fermate dei bus, oppure di aggregazione collettive casuali, laddove spontaneamente ci fermiamo per osservare una facciata o un monumento. La piazza,in effetti, ci guida secondo percorsi stabiliti dallo spazio architettonico che solo in quel luogo, ha quella natura e quelle caratteristiche. Quali funzioni, allora potrebbero nascere per poter riaggiornare quelle qualità comunicative che la città ci offre da sempre? Da alcune studi fatti, è evidente che la piazza, o spazio comune, pretenderebbe un rinnovamento che fosse al passo con le trasformazioni tecnologiche e socilai dell’utilizzo di spazio per la sosta e il tempo ‘quieto’, in cui l’osservatore innesca la sua azione di conoscenza diversa dal normale ritmico lavoro quotidiano. Ho immaginato allora dei box ad isola, multimediali, per le indicazioni turistiche, autoilluminate. Ora, questi ‘spazi variabili’ potrebbero essere usati a tempi alterni come vetrine di attività commerciali quindi pubblicizzare un articolo d’alta moda (per le ridotte dimensioni, non invadenti) oppure contenere uno schermo che proietta immagini riferite ad argomenti particolari, anche di servizi per esmpio per il turismo della stessa città, o indicazioni che ora sono di competenza di supporti cartacei troppo invasivi facilmente degradabili e degradanti. Oppure potrebbero illustrare strade e piazze in cui la presenza d’iniziative di diverso interesse collegherebbe ogni luogo agli altri simili, il risultato sarebbe un unico e grande organismo. Credo fermamente che il carattere ‘destrutturante’ legato all’interesse specifico di campi diversi degli individui riscontrato in quest’epoca, pretenda la dissoluzione dei grandi contenitori da ‘fiera’ e che si sbricioli in tanti piccoli servizi a disposizione dell’uomo urbano. La piccola scala compatterà le funzioni in isole ‘cittadine’ e le introdurrà magari in certe piazze buie e scarsamente visitate, infatti, per esempio, una serie di questi box di forma e composizione diversa potrebbero risvegliare ‘contatti’ (piazze istantanee) che si sono come ‘vaporizzate’, diventando veri e propri vuoti di tutto. Sappiamo già dell’esistenza di possibili corpi (muri pubblicitari) che tramettono direttamente informazioni pubblicitarie sui telefonini vicini ad un certo raggio, sappiamo di mostre d’arte che usano spiegazioni delle opere a circuito chiuso per cui basta collegarsi con il canale del visore portatile nella mostra per apprendere le notizie sulle opere, bene, chissà se non arriveremo all’esaltante situazione di edifici storici che trasmettono la loro storia architettonica passeggiando ed entrando nel raggio di frequenza dei loro trasmettitori per poter leggere, poi, su visori appositi trasformando una passeggiata cittadina in un circuito da galleria d’arte (una città finalmente emittente?!). Se questi box diventassero abbastanza capienti da formare, uniti tecnologicamente e architettonicamente, delle unità mobili informatizzate, certo diventerebbero a questo punto delle vere e proprie POSTAZIONI itineranti. Ma cerchiamo di avvalerci della direttiva Metabolista non legata alla necessità demografica, ma funzionale; usiamo la tecnologia del tempo e siccome abbiamo già parlato di postazioni, applichiamo per induzione queste ‘postazioni’ di lavoro, fino a costituire dei veri e propri laboratori destinati magari alla ricerca, come osservatori sulla città. Certo non nelle piazze, dove, in questo caso, dovrebbero esserci dei punti informativi che farebbero capo ad unità tecnologiche perché no, collaboranti e compartecipanti: Ma dove e in quale spazio? Forse in edifici fatti apposta da zero? Assolutamente no, la RICONVERSIONE funzionale dei collegamenti è proprio questa; l’uso diverso di strutture già esistenti. Basta pensare ai progetti di Le Corbusier per le autostrade sui tetti degli edifici interminabili (piano di Algeri) o alla futurista invenzione di M.Trucco a Torino, e viene subito l’idea che le unità tecnologiche informatiche possono benissimo applicarsi,badate bene, ai piloni dei viadotti delle strade appena fuori le città dove sarebbe possibile accedervi. Le cattedrali tecnologiche nel deserto certo, saranno sempre progettate, ma secondo me, la loro realizzazione avverrà contemporaneamente ad interventi ‘sui’ collegamenti del tessuto urbano di nuove funzionalità. Come se spuntassero fra i flussi delle persone, tangenti ai percorsi della gente, per la città, nuovi ‘corpi’ emittenti carichi di energia nuova a disposizione dell’informazione. La risposta alla complessa domanda che la nostra realtà urbana ci pone avrà bisogno di una cultura e una profonda e sapiente gestione di mezzi e strumenti da usare in economia legati all’uso sapiente dei materiali ed allo sviluppo di nuova sperimentazione ‘dei luoghi’ dove andare a introdurre certe ‘emergenze’. La tecnologia multimediale sveglirà quindi possibili gesti e segni nuovi, rielaborando così percezioni assopite e riaggiornando il nostro bagaglio culturale nel confronti del quale siamo sempre in debito di creatività. Ebbene, secondo me, da alcune tracce individuate nella realtà urbana, la direzione è proprio questa, una generale silenziosa mutazione parlerà un linguaggio comune secondo codici visivi alternativi e per questo stimolanti. ‘RICONVERSIONE’ strutturale sarà la parola d’ordine dell’uomo urbano ritrovato, chiaramente comprenderà la CULTURA unita alla tecnologia e con questa, ai bisogni di PRATICITA’ nella sperimentazione e di VIRTUALITA’ delle possibilità alternative, ormai insostituibili componenti, come non mai aderenti allo scopo, per una maggiore qualità del nostro spazio ‘urbano’ contemporaneo. Nota di rete Vignetta di testa disegno di: Michele Benevento soggetto: Paolo Marzano