della rappresentazione
L’indebolimento della cultura descrittiva della città rappresenta oggi una delle componenti più critiche perché impedisce di avanzare con sicurezza nel dominio intellettuale delle tecniche e nelle ragioni del progetto urbano contemporaneo.
Da sempre architettura ed urbanistica hanno bisogno di descrivere per agire, descrivere con il di-segno, tra visioni ravvicinate e lontane per tentare di cogliere con pazienza ed efficacia la fisionomia del reale.
Nell’età classica, l’unità fra architettura e rappresentazione, fra spazio architettonico e scena era praticamente assoluta.
Non solo era costante il rapporto fra architettura e scenografia ma esisteva anche un elemento convenzionale per la rappresentazione di qualsiasi spazio urbano, indipendentemente che esso fosse fisicamente tangibile o appartenesse soltanto al mondo dell’apparenza. La prospettiva, sia in pittura che in architettura, era il procedimento attraverso il quale una realtà spaziale veniva sottoposta all’osservazione dello spettatore.
Quando il Modernismo sostituì la prospettiva con l’assonometria questo mutò in modo sottile il rapporto tradizionale oggetto-soggetto, oggetto-spettatore. Le dimensioni dell’oggetto, non falsate dal meccanismo dell’occhio umano, potevano difficilmente essere scambiate per una rappresentazione di realtà “naturale”.
Tuttavia l’oggetto conteneva ancora il locus significante che si riferiva all’esterno da sé.
Un modo di guardare il mondo che si regge su una grande tradizione filosofico-scientifica ereditata da Cartesio e da Pascal dove la rappresentazione è un’opera di ricodificazione dell’originale mirante alla produzione di un modello.
Tale ricodificazione procede per riduzione e per astrazione.
Si scartano i particolari superflui, si eliminano gli aspetti non pertinenti fino a distillare una sorta di “scheletro” in grado di afferrare il problema in tutta la sua generalità.
La verità è quindi concepita come corrispondenza fra il modello (astratto) e la realtà (originale).
L’errore è escluso per definizione. Le contraddizioni ed i conflitti spostati ai margini.
Un paradigma antico e tracotante che oggi ci appare assolutamente incapace di restituirci il senso del reale.
Lo spazio della città contemporanea non è uno spazio prospettico, costruito attraverso la sequenza di centri ed assialità.
E’ piuttosto uno spazio a molte direzioni, labirintico, intermittente, sovrapposto, compresente.
Concetti come morfologia urbana, tipologia insediativa e tipi edilizi risultano essere categorie analitiche non idonee all’azione descrittiva. Perfino il termine “città” sembra obsoleto a molti autori che sentono il bisogno di sostituirlo (metropoli, cybercity, multiplicity, ecc).
La stessa idea tradizionale dello spazio pubblico come cemento della vita urbana sulla scena architettonica della città rappresenta un’immagine datata.
Gli strumenti tradizionali dell’analisi e della descrizione si rivelano pertanto inefficaci di fronte ai fenomeni di trasformazione che con tanta evidenza e velocità stanno cambiando il teritorio.
In Notre-Dame de Paris Victor Hugo inserisce una descrizione tipicamente moderna: Paris à vol d’oiseau.
Dall’alto di una delle due torri della cattedrale il suo sguardo abbraccia inizialmente l’intera città e la sua storia per poi soffermarsi su singole emergenze e dettagli sempre più vicini.
Al termine di questa esplorazione quasi cinematografica vi è un sussulto, la paura che essersi soffermato troppo sul particolare faccia perdere l’immagine complessiva della città.
Per lungo tempo gli architetti e gli urbanisti hanno fatto ricorso a tecniche descrittive analoghe, ma oggi quell’atteggiamento sta cambiando.
La visione moderna del mondo si costruiva sull’istituzione di una distanza. Lentamente ora entrata in crisi quella separazione tra “io” osservante e “oggetto” che ne è la parte costitutiva.
Tra Le Tableau de Paris di Louis-Sébastien Mercier e l’Ulisse di Joyce, passando attraverso Balzac, Zola, Poe, Baudelaire, Flaubert, Argon, le descrizioni delle città si riempiono dello spettacolo del vissuto, delle pratiche sociali, d’immagini, delle microstorie dei suoi abitanti.
Alla fine del ventesimo secolo queste descrizioni ci raccontano di corpi: di corpi che s’incontrano, si adeguano, si modificano, si muovono esplorando territori assai più vasti di un tempo.
Corpi che incontrano architetture, pavimentazioni, strade, automobili, aerei, giardini, oggetti.
Corpi singoli o diventati masse che impongono la loro presenza nel cinema, nella fotografia e nelle arti visive.
La modernità aveva reciso il legame tra corpo e città; la fenomenologia della contemporaneità lo rimette al centro dell’esperienza. Riallacciare i legami con l’esperienza dello spazio vuol dire, nella letteratura e nelle arti di fine secolo, ritrovare il senso ordinario delle cose e, come argomenta Sennet, riappropriarsi dei loro caratteri tattili, olfattivi, sonori.
E l’aderenza del corpo al mondo mentre la città diviene uno stadio intermedio dell’esperienza.
Per restituirne il senso complessivo si dovrà cercare di oltrepassare molteplici strati di significato: da quelli delle morfologie dello spazio fisico e delle strutture delle società locali, a quelli più profondi delle loro esperienze vissute e dei loro orizzonti di attesa per il futuro, e infine a quelli dei loro immaginari simbolici. E attraverso la costituzione di descrizioni tra immagine ed atti narrativi si cercherà di fissare il misterioso intersecarsi dei diversi strati da cui trae origine l’identità specifica del luogo, colta attraverso l’incontro tra l’interprete ed il mondo.
Le immagini, al di là del contenuto retorico con cui possono essere intenzionte, devono essere considerate un potente strumento di conoscenza. Non semplice traduzione-rappresentazione di altri linguaggi cognitivi, ma a pieno titolo occasione di nuove sintesi interpretative.
Sul fronte opposto, la facoltà di narrare è per quanto ne sappiamo una costante umana. Quasi sempre, come scrive Secchi, la pratica architettonica ed urbanistica ha acquisito senso entro un racconto. Il racconto risponde al desiderio di collegare fra loro materiali rappresentati dando loro così un ordine e un senso.
Come ha scritto Ricoeur, la narrazione è una rappresentazione che connette. Non appena il discorso va oltre la rappresentazione di un fatto e lo accosta ad un altro, ciò che si produce è un nesso: a essere connessi in ogni racconto sono eventi, personaggi e azioni che, senza l’idea stessa della “storia” che li pone in rapporto tra loro, resterebbero espressioni di una mera discontinuità.
L’oscillazione continua tra questi due ambiti della conoscenza potrà così generare nuovi codici interpretativi in grado di revocare le immagini consolidate e disporsi a nuovi modi di guardare e interpretare il testo dell’esistente.